Per dirla con il sociologo Edgar Morin: «Salvarsi dalla catastrofe è improbabile, perciò ci spero» (“La Stampa”, 27 marzo 2011). È un po’ questo il senso dei colori della copertina del Rapporto sui diritti globali di quest’anno: un blu intenso e predominante ci dice delle difficoltà di un mondo alle prese con la crisi globale, con la disumanità delle guerre, dei terrorismi e delle violazioni dei diritti, con la devastazione ambientale che sembra conoscere ripensamenti troppo lenti e timidi; ma c’è anche un punto di verde che si affaccia e reclama un’incerta speranza, che allude a un orizzonte di futuro possibile, più degno e giusto per tutti. C’è il colore cupo del cimitero liquido che inghiotte a migliaia nel Mediterraneo e nel Canale di Sicilia uomini, donne e bambini in fuga e c’è il pallido verde del sogno di una vita desiderabile negli interstizi della Fortezza Europa. C’è lo scuro della privazione della libertà e del domani, della fame, della sete, della rapina delle risorse, del sottosviluppo e c’è il tenue ma tenace verde della liberazione e della rivolta che s’impongono al mondo e rovesciano i tiranni.
Il Maghreb ci ha insegnato, giacché lo avevamo dimenticato, che ribellarsi è giusto e talvolta diviene possibile. Assieme, ci ha mostrato come, ancora e sempre, le grandi nazioni, l’Europa e le organizzazioni mondiali siano incapaci d’interposizione positiva e scelgano sempre la scorciatoia (spesso interessata) dell’intervento militare. La guerra è una moneta che non va mai fuori corso. Anche in quest’anno l’abbiamo vista all’opera con le consuete -e micidiali- caratteristiche in Iraq, in Afghanistan e, ora, in Libia; oltre che nei tanti focolai e incendi minori sparsi per il mondo e, in particolare, nel continente africano.
Il Novecento, secolo breve e insanguinato, ha traghettato nel nuovo millennio inalterate volontà di potenza e strumenti bellici più raffinati ma non meno mortiferi. Strumenti più raffinati non tanto in virtù dei giganteschi progressi (meglio in questo caso sarebbe definirli regressi) tecnologici: non più guerre di uomini contro uomini, di soldati contro soldati, ma cinici e oltremodo distruttivi war games truccati dall’inizio, proprio come per la «pistola fumante» di Saddam Hussein; quanto per la cortina fumogena e propagandistica con la quale se ne sono oscurati totalmente gli effetti, con la macelleria scomparsa dai video e occultata dall’informazione embedded, nobilitata dalla vergognosa retorica di certi editorialisti e dal doloso rovesciamento di senso delle parole, che definisce umanitari la distruzione e l’eccidio. Alla violenza delle armi si intreccia così, sapientemente, quella della torsione della verità. Violenta e vile anch’essa.
Che la guerra sia cinica e che le parole tentino di mascherarne la vera essenza e la cruda sostanza, del resto, non è storia di oggi. Alle due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki il 6 e 9 agosto 1945 erano stati dati i vezzosi nomignoli di Little Boy e Fat Man. I morti furono oltre mezzo milione, tra quanti morirono subito e quanti in seguito, per effetto delle radiazioni. Praticamente tutti civili. Una strage forse più infame delle tante altre, poiché non motivata da strette esigenze belliche quanto dalla volontà di testare le nuove armi e di ammonire l’alleato-nemico sovietico. Un esperimento in corpore vili, come si dice, ma in questo caso la viltà stava in chi premette quei pulsanti e ancor di più in chi decise che venissero premuti. Per quell’immane crimine non ci fu nessuna Norimberga. I vincitori, oltre che la propria forza e il nuovo ordine, impongono difatti anche la nuova morale e il proprio diritto.
Allo stesso modo, ieri e oggi nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, si testano nuovi armamenti e si smaltiscono i vecchi arsenali obsoleti, così da poterli nuovamente ricostituire ammodernati; costa difatti meno smaltirli impiegandoli sul campo: la vita umana, fatta diventare merce, è quella che vale meno di tutte. La guerra odierna delle grandi potenze è, eminentemente, “esternalizzata”: aggressione di privati armati (mercenari nobilitati con il nome di contractor) contro civili disarmati (mistificati con il marchio di terroristi, il più delle volte a torto). Guerra dell’Occidente contro i Sud del mondo. Guerra delle multinazionali per l’apertura di nuovi mercati. Guerra di governi e coalizioni mossi dalla necessità di garantirsi accesso a risorse energetiche e materie prime strategiche. Addirittura, guerra scatenata semplicemente dalla necessità di rinverdire la propria immagine per fini elettorali e di consenso, come nell’accelerazione imposta da Nicolas Sarkozy all’intervento e ai bombardamenti dei “volenterosi” (sic!) in Libia.
In quei giorni, mentre persino “grandi vecchi” della sinistra italiana appoggiavano l’intervento bellico contro Muammar Gheddafi, la parola più appropriata l’ha pronunciata, e tra i pochi, un ministro leghista: neocolonialismo. Nel caso di Roberto Calderoli si è trattata di una forma, assai poco credibile, di razzismo-pacifismo. Ma non di meno il termine utilizzato appare pertinente. La guerra ha assunto (o, più probabilmente, ha sempre costitutivamente avuto) la fisionomia propria della finalizzazione colonialista, vale a dire del depredamento di risorse e ricchezze, ora con particolare centralità di quelle energetiche, di posizionamento e di protezione di interessi geostrategici. Quando possibile, ciò avviene attraverso un combinato disposto di macrospeculazioni finanziarie e di azione convergente di Banche centrali, governi e istituzioni sovranazionali. Illuminante di questa tecnica (solo in apparenza priva di effetti letali) il caso della Grecia, dove dietro alla facciata degli “aiuti”, è passata la subordinazione del presente e del futuro di quel Paese a decisioni esterne e sinanche il pregiudizio di sue porzioni di territorio, poste a pegno della (impossibile) restituzione del debito, laddove peraltro il credito è cedibile a terzi. Quando, per ragioni diverse, il “colonialismo dolce” non può avanzare in punta di deliberati finanziari e di subordinazione di esecutivi e leadership locali agli interessi delle corporation, si torna ai più antichi e collaudati sistemi, alla punta delle baionette, vale a dire all’occupazione fisica, come in Iraq e Afghanistan o ai protettorati e ai “governi-fantoccio” a presidio e garanzia degli interessi occidentali. Esemplare al riguardo il ruolo e la diretta ingerenza avuti dalla Francia, ad aprile 2011, nella crisi interna della Costa d’Avorio, ex colonia dove gli interessi francesi sono tuttora assai cospicui, sino alla cattura e deposizione del “presidente illegittimo” e divenuto sgradito Laurent Gbagbo.
Anche qui, poco di nuovo: le politiche del bastone e della carota, dei governi amici, dei golpe e dell’intervento militare sono gli strumenti utilizzati nel corso del Novecento nel risiko planetario dalle due superpotenze di allora, dagli USA nel “cortile di casa” latino e centro americano e dall’URSS nell’Est Europa e da entrambe in Africa, Medio Oriente e Asia.
Ora i rovesciamenti, traumatici o “dolci”, dell’ordine esistente non si chiamano più golpe o guerre coloniali ma con gli ossimori “guerre umanitarie” o “missioni militari di pace”: le intenzioni e i risultati non sono dissimili. La differenza è che a quel tempo gli interessi perseguiti erano quelli, appunto, di potenza degli Stati che si erano divisi il mondo; oggi sono eminentemente quelli delle grandi multinazionali. D’altra parte, è forse necessario anche qui provare a riportare le parole al loro reale significato. Appare, in effetti, arduo considerare e definire come guerra la pratica dei bombardamenti aerei, che è divenuta la costante. A rischio zero per chi la compie e oltremodo devastante per chi ne è vittima. Persino il terrorismo comporta rischi e conseguenze per i suoi autori. In questo caso, invece, la sproporzione è evidente. Non c’è qui bellum né duellum, non c’è neppure l’osceno mestiere delle armi: c’è solo la supremazia dei missili e dei sistemi elettronici, degli investimenti multimiliardari dei governi e degli immani profitti delle lobby transnazionali. La definizione appropriata di tutto ciò sarebbe quella di stragismo su vasta scala.
Secondo i dati dell’osservatorio mensile sulle vittime dei conflitti, pubblicati nel nuovo periodico di Emergency, “E – il mensile”, solo dal 10 febbraio al 10 marzo 2011 vi sono state 2.544 vittime disseminate in 20 Paesi. In testa alla triste lista l’Afghanistan, con 550 morti e il Pakistan con 404. La Libia ancora non era conteggiata. Si tratta di cifre sicuramente inferiori alla realtà, poiché provenienti solo dalle rilevazioni sul campo di organizzazioni umanitarie e da fonti di stampa, ma sufficienti a fare comprendere gli effetti delle ingerenze umanitarie e degli squilibri mondiali. Vale anche qui il cinico rovesciamento della realtà e del nome delle cose. “Missioni di pace”, invocate in nome della difesa delle popolazioni civili dalle violenze di satrapi e dittatori, si sono regolarmente (e inevitabilmente: di questo occorrerebbe che si rendessero conto i sostenitori in buona fede dell’intervento in Libia o, prima, in Bosnia) tradotte in una crescita esponenziale proprio di quel genere di vittime. Relativamente all’Afghanistan, nel solo 2010, le organizzazioni umanitarie hanno registrato 2.777 vittime civili, in aumento del 15% rispetto all’anno precedente (ma per i bambini la crescita delle morti è stata addirittura del 66%). Di almeno 440 di queste vittime sono responsabili le forze di sicurezza afghane e le truppe internazionali “di pace”.
Ancora più grave il quadro dell’Iraq, dove il bilancio di Iraq Body Count dall’inizio del conflitto nel 2003 all’aprile 2011 indica in oltre 100.000 le morti civili. Sicuramente neppure Saddam Hussein, con lo sterminio dei kurdi e degli oppositori, sarebbe riuscito a tanto. Pure l’Italia ha fatto la sua parte, spendendo peraltro in questa guerra sinora oltre tre miliardi di euro. Certo assai meno degli USA, il cui budget 2011 per la Difesa (che sarebbe invece proprio chiamare spesso per l’Offesa) è di 725 miliardi di dollari, di cui circa 200 per le missioni in Afghanistan e Iraq.
La guerra, insomma, oltre a non essere mai giusta e mai necessaria, non difende i civili, ma contribuisce a ucciderli e a esporli ancora di più alla spirale della violenza. Sono altri gli strumenti. Ma il gioco, ormai collaudato, è quello di lasciare degenerare a tal punto la situazione che non si rendano più praticabili soluzioni politiche e diplomatiche, di interposizione e pressione, di mediazione e trattativa. Allora si dice: non c’è altra soluzione dell’intervento militare. Invece, le soluzioni alternative c’erano e ci sono sempre. Basta porsi in quell’ottica e zittire le pressioni interessate delle lobby. E magari destinare alle alternative anche solo una piccola parte della montagna di risorse economiche impiegate per le opzioni belliche.
Del resto, al di là di ogni valutazione nel merito e dei possibili -e anzi necessari- distinguo, è paradossale che il premio Nobel per la pace sia stato assegnato al presidente di uno Stato mentre questi era in guerra su più fronti. E’ anche questa distanza tra le cose e il nome a esse attribuito dall’opinione e dalla morale dominante che determina l’esteso e crescente -preoccupante sotto il profilo democratico- sentimento di repulsa per la politica.
Di Sergio Segio, coordinatore del “Rapporto sui diritti globali 2011″ | Volontariato Oggi
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