martedì 25 ottobre 2011

Psicologia del Sesso: Fedeltà, orgasmo, partner i luoghi comuni sfatati dalla scienza

Una ricerca americana mette in fila tutti i risultati degli studi sulle presunte differenze tra uomini e donne sulla sessualità. Ne esce un ritratto assai diverso dalle convinzioni popolari di SARA FICOCELLI
fedelta delle coppie, alle ragazze piace il sesso
Sorpresa: Scoperta l’acqua calda 
Il sesso piace anche alle donne
IL CANTAUTORE Cesare Cremonini non è più l'unico a credere che gli uomini e le donne siano uguali: a fargli eco sono anche gli scienziati. Negli ultimi 20 anni, molti studi hanno dimostrato che, quando si tratta di sesso, maschi e femmine pensano e agiscono in modo simile.

I 'miti' del diverso approccio dei generi (lui più interessato al sesso, lei all'amore e così via) sono dunque destinato ad essere soppiantati dalla schiettezza della ricerca che, una volta tanto, vede i dati provenienti da più laboratori andar tutti nella stessa direzione.

Ad aver tirato le file di queste ricerche è l'Università del Michigan di Ann Arbor (Stati Uniti), con uno studio condotto dal dottor Terry Conley e pubblicato su Current Directions in Psychological Science, la rivista dell'Associazione per le scienze psicologiche.

L'analisi di Conley ha preso come primo punto di riferimento lo stereotipo che gli uomini pensano al sesso di più delle le donne, cercando riscontro della teoria in due decenni di ricerche sul comportamento degli esseri umani. Dopo aver notato che non esiste, a livello scientifico, nessuna conferma di questo mito popolare, Conley ha concluso che "le differenze di genere non devono esser prese alla lettera per quanto riguarda la sessualità", e ha poi demolito uno per uno sei luoghi comuni sul rapporto di uomini e donne con amore e sesso.

Il più diffuso è quello secondo cui gli uomini vogliono una compagna sexy e le donne un partner benestante. Che così non è, spiega Conley, lo ha dimostrato, nel 2008, uno studio della Northwestern University pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology, che ha usato la formula dello 'speed dating', ossia degli 'incontri lampo programmati', per scoprire che, al momento di scegliersi, uomini e donne sono imprevedibili allo stesso modo, non seguono regole e spesso si sentono attratti da un partner che sulla carta non rispecchia nessuna delle proprie aspettative. 

"Oggi le donne - spiega la psicologa sessuologa Francesca Romana Tiberi, presidente dell'Associazione iItaliana sessuologia e psicologia relazionale - tendono a costruirsi la propria identità puntando solo sulle proprie capacità e quindi non ricercano più un partner 'comodo' sul piano economico. Anche gli uomini dal canto loro stanno modificando questa tendenza alla ricerca della partner sexy: la donna avvenente non è più sufficiente, cercano una compagna in grado di offrire un reale supporto".

Altro luogo comune sfatato è che i maschi siano promiscui e le donne monogame. In effetti i primi, se interrogati sull'argomento, affermano di praticare il sesso più spesso e con più partner rispetto alle seconde. Tuttavia, uno studio condotto nel 2003 dagli psicologi Terri Fisher dell'Ohio State University e Michele Alexander dell'università del Maine ha rivelato che queste differenze sono dovute al fatto che le donne non sempre rispondono onestamente alle domande sul sesso.

"Sono sensibili alle aspettative sociali riguardo al loro comportamento - spiega Fisher - e potrebbero non essere del tutto oneste se interrogate sulle proprie abitudini sessuali". Il presidente dell'Istituto italiano di sessuologia scientifica Fabrizio Quattrini spiega: "Oggi uomini e donne hanno uguali desideri ma i primi continuano a pavoneggiarsi delle possibili conquiste, mentre le seconde furbamente collezionano esperienze tenendole tutte per sé. Gli uomini stereotipicamente restano agganciati al desiderare più donne (solo nel pensiero) ma poi difficilmente si vedono all'interno di un tradimento, mentre le donne, pur non promuovendo una campagna a favore delle conquiste, sono le prime a confessare eventuali tradimenti".

Secondo uno studio della Ohio State University di Mansfield, anche quella che gli uomini pensano al sesso ogni sette secondi sarebbe una leggenda metropolitana. Gli studenti universitari, scrivono gli scienziati, fantasticherebbero sul coito appena 18 volte al giorno (contro le 10 delle donne) e ci penserebbero con la stessa frequenza con cui rimuginano su cibo e sonno. Dunque sarebbero, a detta degli studiosi, più salutisti che sessuomani. "In effetti però - precisa la Tiberi - gli uomini sono più portati a pensare al sesso, perché nel sesso maschile ciò non è collegabile ad alcun moralismo. Per gli uomini è possibile avere pensieri sessuali senza vivere sensi di colpa. Nelle donne questa libertà ancora non esiste".

L'analisi di Conley e colleghi ha anche sfatato il mito della problematicità dell'orgasmo femminile, ricordando uno studio pubblicato nel libro "Families as They Really Are" (W.W. Norton and Co., 2009) e condotto chiedendo a 12.925 persone di parlare della propria vita sotto le lenzuola: dalle risposte è emerso che nelle relazioni stabili le donne nel 79% dei casi raggiungono il piacere tanto quanto l'uomo. Tuttavia, sottolinea la psichiatra e psicoanalista Adelia Lucattini, presidente della Sipsies, Società internazionale di psichiatria integrativa e salutogenesi di Roma, è pur vero che "le donne hanno fisiologicamente meno orgasmi degli uomini, in parte per una questione anatomica ed in parte per una questione psicologica". 

Penultimo mito da sfatare: secondo la tradizione, il sesso occasionale piacerebbe più ai maschi che al gentil sesso. Falso anche questo. In un esperimento condotto nel 1989 dai ricercatori Rusell Clarck ed Helaine Hatfield era stata provata l'esistenza di una differenza di genere nella risposta agli approcci casuali (il 75% degli uomini avvicinati da una sconosciuta avevano acconsentito alla possibilità di farci sesso, mentre la percentuale di donne "disponibili" all'avventura di una notte con uno sconosciuto era dello 0%), e questa differenza poteva essere spiegata, secondo i ricercatori, col fatto che donne e uomini attribuissero, per motivi psico-biologici, un significato diverso alla cosa.

Secondo Conley invece le donne dicono di no solo perché sono più selettive: saprebbero insomma riconoscere a vista d’occhio un partner sessualmente poco soddisfacente. Questo comportamento, spiega lo studioso, ha origine nella loro minore capacità di raggiungere un orgasmo, il quale dipende in gran parte dalle doti amatorie dell'uomo. La 'Pleasure Theory', dunque, dice che uomini e donne agiscono entrambi in base alla ricerca dell'occasione in cui provare il massimo piacere. "E' sempre un gioco delle parti", precisa la Lucattini. "Le donne sono spesso molto attive nell'essere 'cacciate' e far sentire l'uomo 'predatore'. Vi è in loro un grande piacere nel gestire e organizzare dietro le quinte l'occasionalità delle relazioni maschili, facendo apparire le proprie molto più stabili di quello che non siano in realtà".

Infine, la capacità di scegliere accuratamente il partner e conquistarlo, fin qui riconosciuta più alle femmine che ai maschi. Nel 2009 Eli Finkel, ricercatore della Northwestern University, ha invece dimostrato su Current Directions in Psychological Science che entrambi i sessi sono abili a costruire il rapporto con la persona desiderata, autoimponendosi piccoli sacrifici e attuando il cosiddetto 'effetto Michelangelo', ovvero il raggiungimento dell'intesa a colpi di scalpello, come si fa con una scultura.

Secondo la ricerca, uomini e donne sarebbero dunque entrambi esigenti, perseveranti e pignoli quando si tratta di scegliere il partner, e lo scettro di 'cacciatrici perfette' non spetterebbe alle rappresentanti del sesso femminile.

"Fin dall'adolescenza però - conclude la Lucattini - le donne si addestrano nella ricerca del compagno migliore, sia sessuale che sentimentale, e sono estremamente attive nella caccia dell'uomo giusto. Una volta scelto, sono bravissime a suscitare il suo interesse e a condurlo a sé, attraverso una seduzione spesso non vistosa ma per questo non meno efficace".  Qualcosa di attendibile nei luoghi comuni, dunque, c'è. Come diceva Voltaire, "Se abbiamo bisogno di leggende, che queste abbiano almeno l'emblema della verità".

domenica 23 ottobre 2011

Venerdì 28 OTTOBRE | BEFORE HALLOWEEN - KIZOMBA ROMANA |al Cafè Cretcheu |

CI VEDIAMO QUESTO Venerdì 28/10/11 ✮| BEFORE HALLOWEEN - KIZOMBA ROMANA |✮ al Cafè Cretcheu |

Big flyer -  28 Ott 2011Perché noi siamo i SOLITI, quelli del divertimento, gli amici della prima e dell'ultima ora. Questa è la nostra strada, la strada dell'amicizia, delle grandi relazioni, della celebrazione di ogni momento come grande occasione per rivedersi, per palare, per stare assieme.

Non aspettare che ti raccontino, viene a vivere da protagonista!

Non aspettare che ti raccontino, viene a ballare: la Kizomba, il Kuduro, la Salsa & Raggaeton, l’Afro House & Soukuss/Ndombolo.



Per tutto il resto c'è Kizomba Romana - Dolci Emozioni!

giovedì 20 ottobre 2011

Libia/War4Oil: Perché non credere alla morte di Muammar Gheddafi

FILE GADDAFI FEATURE PACKAGESe la propaganda controlla l'informazione tutto è possibile. La notizia sulla morte di Gheddafi è l'ennesima baggianata che la Nato e ribelli Cnt danno ai porci della comunicazione. Premesso che non crediamo alle ragioni di questa guerra, premesso che i responsabili di una guerra civile diventata genocidio - Nicolas Sarkozy, Barack Obama e David Cameron, prima o poi dovranno rispondere in sede di giustizia internazionale -, crediamo comunque che la presunta morte di Muammar Gheddafi sia l’ennesima presa in giro dell’opinione pubblica internazionale.

Ogni giorno la Nato e i ribelli bombardano città abitate da centinaia di migliaia di persone fedeli a Gheddafi ma questi fatti, questi crimini non fanno notizie. Viviamo nel mondo del Grande Fratello, dove “la verità è bugia”, e persino la matematica è questione di opinione.

Né Sirte, né Bani Walide sono nelle mani dei ribelli. Cos’altro?

mercoledì 19 ottobre 2011

In risposta a “Come il mondo ha armato le dittature arabe” (lepersoneeladignita.corriere.it)

Carissima redazione del Blog http://lepersoneeladignita.corriere.it, leggo spesso i vostri articoli e molte volte mi sono persino commosso. Siete bravi in molte questioni, ma per cert’altre fatte parte di coloro che fanno finta di non vedere, non ascoltare e costretti a dire niente. Detto questo, passo alla questione che mi ha portato sul vostro blog: parlare del passato della Libia, piuttosto che del genocidio che sta avvenendo in questo momento.

Ognuno scrive quello che vuole, ma in certi momenti le circostanze storiche ci impongono il “cosa scrivere”. Parlando della vendita di armi a vari Governi africani e non solo, l’illustre Riccardo Noury, ha richiamato la questione libica, condannando ovviamente la vendita di armi alla Repubblica della Libia di Muammar Gheddafi, pur essendo uno Stato sovrano, e mi aspettavo continuassi a parlare anche della vendita di armi ai ribelli/Cnt, una pura violazione delle risoluzioni Onu e del diritto internazionale.

Illustre Ricardo, e carissima redazione, chiunque conosce le questioni africane si arrabbia mentre legge un articolo che dovrebbe fare luce a questioni serie ma si cimenta nella facile propaganda e distrazione di massa. Come potete capire, la guerra che Obama, Sarkozy e Cameron hanno voluto in Libia ha ucciso in sei mesi circa 50.000 persone, un numero altissimo per la proporzione della popolazione libica, circa11mln. Dinanzi a questo aberrante scenario, molti giornalisti, molti blogger, molti giornali come il Corriere hanno taciuto, hanno chiuso le proprie menti e preferito continuare a parlare di tutt’altro piuttosto che della guerra voluta da molti italiani pur di far fuori Gheddafi. Vi ricordo, “quando due elefanti lottano, chi soffre è l’erba”. In questo momento il popolo libico soffre come non mai.

Parlando della Libia, per il vostro prossimo post/articolo, chiunque lettore che vi segue e crede veramente nella difesa dei diritti inalienabili di tutto gli esseri umani, aspettiamo che parlate di:

1) La sistematica violazione della risoluzione 1973 dell’Onu, per parte della Nato, che in Italia non ha prodotto un solo dibattito, persino su questione giornale (Il Corriere della Sera, che si presuppone sia liberale). Parlatene, usate il vostro buon senso per argomentare questioni serie, reali invece di continuare a propagandare in favore di un guerra che ha ferito profondamente un popolo ed un continente. Avete fatto così, mentre la gente moriva, mentre la gente muore, mentre si cacciano “i neri” come bestie in ogni parti si trovano.

2) I bombardamenti indiscriminati della Nato: scuole, acquedotti, campagne agricole, strade, ponti, università, condomini, moschee, etc. Parlatene. Ma davvero chi ha la forza può fare qualunque cosa vuole? Torniamo all’epoca pietra, alle leggi della giungla e sarà la fine. Davvero il mondo si riduce alla guerra per le materie prime e l’occupazione delle terre dei popoli più deboli? Davvero i diritti umani non passano di una ideologia occidentale e che vengono dimenticati nei momenti di colonizzazione?

3) L’assedio e distruzione della città di Sirte nel silenzio eloquente di tutte le organizzazioni dei diritti umani. Se vi ricordate, la risoluzione Onu è stata approvata in tempo record per bloccare la presunta intenzione di Gheddafi di attaccare Benghazi. Orbene, come mai “abbiamo” lasciato che i ribelli facessero lo stesso alla città di Sirte? Anzi, Gheddafi non l’ha fatto, i ribelli invece hanno distrutto un’intera città: cercate su google/immagini… per gentilezza, informate la gente e non contribuite alla distruzione di quel poco di morale ed etica presente ancora nella società asfissiata dal consumismo malato.

4) I lager creati per neri, siano libici, siano lavoratori. Ho letto sul corriere un triste reportage della sparizione della città di Tawargha, una città abbittata prevalentemente dai neri libici. Sono stati ammazzati, bruciati, fatti sparire nel silenzio di tutti. Questa è la democrazia che l’Occidente ha voluto in Libia? Questa è la protezione dei civili? Chi risponderà per la morte di quella gente? Finora non si può avvicinare in quel posto per la puzza dei cadaveri. Ma come siamo arrivati a questo così basso livello di umanità?

5) La Nato ha fatto tutto senza coinvolgere nessun’altra organizzazione internazionale. Persino l’Unione africana è stata svergognata, fatta tacere, esclusa da ogni possibilità di intervento. Questo è il modo collegiale di risolvere i problemi del mondo? I problemi africani senza gli africani?

Così si crea l’odio tra i popoli. Si creano i falsi miti dei paesi bravi a quelli cattivi, si crea il “terrore”. Cosa sarà della Libia adesso? Chi deve rispondere per la morte di così tante persone innocenti? Se questo è il “R2P” della Nato, cosa sarà della Siria? E dell’Iran?

A voi chiedo: iniziate a credere VERAMENTE in quello che fatte. LAVORATE PER LA DIFESA DEI DIRITTI UMANI, lasciate la politica ai politicanti che ora governano il mondo. Anche loro passeranno, ma il vostro legato, se buono, resterà.

Gli uomini sono uguali, ogni vita persa in Libia prima o poi dovrà essere giustificata dinanzi a un tribunale.

Kingamba Mwenho

lunedì 17 ottobre 2011

Libia, galleggia il cavalier travicello - “Il caos, l’illegittimità e l’insania politica dell’attuale intervento in Libia”

INSANIA POLITICA DI BERLUSCONI. LA PAROLA “UMANITARIA” NON SI PUÒ ACCOMPAGNARE ALLA PAROLA “GUERRA”. ABBIAMO ROVESCIATO LO STATUTO DELL’ONU: IMPEDISCE DI BOMBARDARE POPOLAZIONI E GOVERNI PER EVITARE MASSACRI CON ALTRI MASSACRI. ALL’INTERNO DELLA CHIESA LA VOCE DI UN SOLO VESCOVO

la democrazia della nato in libia La democrazia della NATO/Sarko in Libia

Umanitaria? La prima cosa da dire è che il termine “umanitario” applicato a una politica, è fuorviante, se non addirittura espressione di un’ideologia perversa. Esso suppone infatti che la qualità umanitaria rappresenti una eccezione o una sospensione o una particolarità della politica, che di per sé avrebbe tutt’altre finalità. Nella nostra concezione, al contrario, la politica deve sempre essere umanitaria, cioè ordinata al bene degli uomini e delle donne in quanto cittadini, non importa se del proprio o degli altri Stati; e basta leggere l’art. 3 della nostra Costituzione, allargato poi nell’articolo 11, per vedere come a questo punto dell’incivilimento umano la politica non può che essere pensata come rivolta alla piena realizzazione delle persone umane e a un ordine di giustizia e di pace tra le nazioni.Se ciò vale per la politica, tanto più vale per la guerra, che non può essere umanitaria nemmeno come eccezione. E infatti, a questo stadio della civiltà, essa è bandita, oggetto di ripudio all’interno e bollata come flagello sul piano internazionale.

Impedire nefandezze.  Altra è la questione dell’uso della forza per impedire genocidi e altre nefandezze o minacce alla pace, previsto dal capitolo VII della Carta dell’ONU. Esso è legittimo non per il semplice fatto che l’ONU lo decida e lo affidi all’esecuzione di questa o quella potenza, ma per il fatto che non abbia altre finalità che quelle ammesse dalla Carta (e non ad esempio rovesciamento di regimi o assassinio dei loro capi) e che in nessun modo sia assimilabile alla guerra. A tal fine esso non può aver luogo se prima non siano stati compiuti, anche dallo stesso Consiglio di Sicurezza, tutti i tentativi per una composizione pacifica, e non solo non deve tendere all’annientamento del nemico, come è proprio della guerra, ma non deve essere espressione della sovranità degli Stati – a cui il diritto di guerra è storicamente avvinghiato – né essere sospettabile di essere funzionale ai loro interessi, petroliferi, territoriali o economici che siano.

Vecchie sovranità. Per questa ragione secondo la Carta dell’ONU le operazioni devono avvenire sotto la responsabilità non di uno Stato, per quanto grande e potente, e tanto meno della NATO, che imputandosi una guerra esercita una sovranità che non ha, ma del Consiglio di Sicurezza e sotto la direzione strategica del Comitato dei capi di Stato Maggiore dei cinque membri permanenti; e devono essere compiute da forze armate tratte dagli eserciti nazionali ma messe a disposizione del Consiglio di Sicurezza in base ad accordi permanenti tra questo e gli Stati. Questa parte dello Statuto dell’ONU purtroppo non è stata mai attuata, perché le vecchie sovranità e il patriottismo militare che vuole che ognuno combatta sotto le proprie bandiere sono duri a morire.

Scelte sbagliate. Il caos, l’illegittimità e l’insania politica dell’attuale intervento in Libia sono la conseguenza di questo inadempimento. L’unica cosa giusta è il punto di partenza, ossia la decisione della comunità internazionale di impedire gli eccidi in Libia, come avrebbe dovuto fare, e non fece, per porre termine al genocidio in Cambogia (e ci dovette pensare il Vietnam). Ma tutto il resto è sbagliato, a cominciare da quella “fretta della guerra” che è stata denunciata – unica voce coraggiosa e illuminante levatasi dall’interno della Chiesa – dal vescovo Giovanni Giudici presidente di Pax Christi. E sbagliatissime e addirittura letali (per noi) sono le scelte fatte dal governo italiano. Se pur sono scelte! Repentine e contraddittorie, annunciate e smentite, fedeli e infedeli ai patti sottoscritti, tali da fare ancora una volta dell’Italia un Paese non affidabile, ondivago, esposto agli ultimi venti, come il re travicello che, come dice la poesia di Giusti, “là là per la reggia dal vento portato, tentenna, galleggia, e mai dello Stato non pesca nel fondo: che scienza di mondo! che Re di cervello è un Re Travicello!”.

Non ingerenza. Non c’era alcun bisogno di fare i primi della classe “offrendo” la disponibilità delle basi italiane, peraltro da tempo appaltate ad americani e alleati, e operative senza che nessuno ce ne chieda il permesso (i trattati sono segreti); non c’era bisogno di mettere subito in pista i Tornado, quando eravamo (e ancora siamo) vincolati al trattato berlusconiano con Gheddafi, che garantisce “il rispetto dell’uguaglianza sovrana degli Stati; l’impegno a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica della controparte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite; l’impegno alla non ingerenza negli affari interni e, nel rispetto dei princìpi della legalità internazionale, a non usare né concedere l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile nei confronti della controparte; l’impegno alla soluzione pacifica delle controversie”.

Corruzione della politica. Pudore avrebbe voluto che venendo la squilla alla guerra, l’Italia piuttosto che correre al fronte, avesse tentato qualche mediazione visibile; e soprattutto che avesse dichiarato che non solo a causa del trattato di amicizia, e nemmeno dei baci di Berlusconi a Gheddafi, ma a causa delle atroci responsabilità del colonialismo italiano nei riguardi della Libia, mai più armi e militari italiani avrebbero potuto rivolgersi contro il dirimpettaio africano. Questo tutti avrebbero potuto capirlo, e non ci sarebbe stato bisogno di ricorrere al gioco delle tre carte degli aerei che sorvolano ma non sparano, o del dirsi disponibili a una guerra comandata dalla NATO ma non dalla Francia, o del “vorrei ma non posso”, se no arrivano migliaia di profughi e di terroristi a Lampedusa. Questa è la corruzione della politica che, già operante nella politica interna, si è ora pienamente manifestata nella politica estera. Ed è ancora più grave dei vecchi giri di valzer

Via | Arcoiris.tv| di Raniero La Valle

Immanuel Kant "per la pace perpetua" (Jean Jacques Russeau, Jeremy Bentham)

Conseguire la pace era uno dei progetti più importanti del programma dell'Illuminismo, così filosofi, pensatori, uomini più o meno semplici o "famosi" scrissero progetti di pace, senza scoraggiarsi di fronte al potere sovrano, né di fronte all'insensatezza delle guerre alle quali assistevano impotenti come testimoni e come vittime. Così, come si erano create delle istituzioni interne agli stati per regolare i conflitti tra individui e farli uscire da un'ideale stato di natura, non si poteva porre fine alle guerre creando un'istituzione internazionale finalizzata a risolvere le guerre con l'arbitrato?

Alcuni fra i maggiori filosofi del Settecento, come Jean Jacques Russeau, Jeremy Bentham e soprattutto Immanuel Kant, affrontarono il problema con il desiderio di sottrarre ai monarchi il potere assoluto sulla guerra e sulla pace. I pacifisti furono chiamati visionari, utopisti, addirittura ridicoli. Eppure le organizzazioni internazionali di oggi dalle Nazioni Unite, alla Corte internazionale di Giustizia, al Parlamento Europeo, sono già delineate nei progetti di questi filosofi come la prospettiva di una guerra nucleare, aperta proprio da quelle micidiali esplosioni dei giorni 6 e 9 agosto del 1945 di Hiroshima e Nagasaki che comportarono la morte immediata di decine di migliaia di persone e terribili piaghe, contaminazioni e menomazioni dei pochi sopravvissuti, le cui conseguenze si riscontrano addirittura oggi, ci si pone il problema:

E' utopistico parlare di un progetto di pace perpetua?

Come scrive Bobbio: ("Il problema della guerra e le vie della pace" pagg.26-27)

<<O gli uomini riusciranno a risolvere i loro conflitti senza ricorrere alla violenza, in particolare a quella violenza collettiva e organizzata che è la guerra, sia esterna che interna, o la violenza li cancellerà dalla faccia della terra>>

Dacchè <<Il tempo in cui viviamo rende possibile all'utopia di appropriarsi dei severi argomenti, e al realismo, pena la negazione di se stesso, di integrare in se le ragioni dell'utopia>> (E.Balducci-L.Grassi "La pace realismo di un'utopia". Testi e documenti). E' dunque necessario utilizzare la ragione, un processo razionale che scaturito da una precisa intenzione morale costruisca un percorso programmatico che porti alla pace, una pace perpetua.

Perpetua poiché se così non fosse, questa pace sarebbe solo un armistizio, una tregua, una sospensione temporanea dell'ostilità basata sulla sottomissione, sul rancore, sul desiderio di vendetta e sulla diffidenza dei vinti per dei vincitori che monopolizzano il potere: non pace, che significa la fine di ogni ostilità, al di là della cosi detta politica d'equilibrio che ha in qualche modo garantito negli ultimi 2 secoli periodi più o meno lunghi di pace sfociati in terribili conflitti.

Il progetto di Kant impregnato di idee giusnaturalistiche procede da un ideale stato di natura, estendendo l'analisi di Hobbes dai rapporti individuali a quelli tra i popoli.La natura ha obbligato la specie umana alla convivenza ravvicinata su uno stesso pianeta, la Terra, e ha fatto sì che gli uomini sia a livello interpersonale sia a livello "internazionale" entrassero in conflitto. Come l'antagonismo dell' "homo homini lupus" e del "bellum omnium contra omnes", ha spinto gli individui a fondare una comunità garantita da leggi naturali che sottraggono l'uomo allo spontaneo e autodistruttivo impulso degli istinti e ha imporgli una pubblica condotta e una disciplina, che spesso possono essere in contrasto con le private intenzioni di ciascuno, ma che procurano una relativa sicurezza e la possibilità di dedicarsi ad attività che rendano agevole la sua vita, così anche i popoli, alla ricerca del proprio tornaconto, possono giungere a desiderare l'equilibrio tra gli antagonismi e a gettare le fondamenta all'idea morale e razionale della realizzazione della pace.

Kant non si propone di fondare la pace sui buoni sentimenti, ma sulla natura e sulla stessa necessità naturale che spinge l'uomo in questa direzione indipendentemente dalla sua scelta libera e razionale. La natura non fa che favorire l'intenzione morale e quand'anche questa non ci fosse l'uomo farà ciò costretto dalla natura, senza che sia compromessa la libertà individuale, poiché questo impulso a risolvere lo stato di conflittualità dell'uomo è alla base del patto che porta alla formazione di uno stato retto da leggi e regole di convivenza (diritto pubblico interno), così come i rapporti fra stati (diritto internazionale) e il rapporto tra uno stato e i cittadini di un altro stato (diritto cosmopolitico). La natura viene in soccorso alla volontà generale servendosi delle stesse tendenze egoistiche, infatti come dice Kant <<Anche un popolo di diavoli ( purchè dotato di intelligenza) è spinto a costituirsi in uno stato [….]vale dunque l'assioma che la natura vuole irresistibilmente che il diritto finisca per trionfare>>.

Lo stato di pace quando è dovuto all'egoismo naturale si limita solo all'equilibrio tra le forze antagoniste, mentre diventa più solido e duraturo quando è frutto della presa di coscienza morale dei cittadini e dei sovrani. Infatti mentre Bentham sostenitore del liberalismo, vedeva la garanzia della pace nell'attività commerciale, per Kant questa costituisce solo una base empirica dell'idea di pace che può scaturire solo dalla ferma intenzione morale. Proprio perché la pace non può prescindere dal comando morale il progetto pacifista è realizzabile solo in modo tendenziale dal momento che gli uomini non agiscono solo in risposta al dovere della ragione. Sono dunque necessari al fine di fondare la società e costituire un patto per una pacifica convivenza tra gli uomini, non solo la naturale spinta della ragione ma anche gli interessi egoistici e personali dell’uomo quali lo spirito commerciale e la forza del denaro. Riguardo al così detto "pacifismo giuridico" ci si pone davanti il problema dell’estensione dei poteri che si devono attribuire all’organismo internazionale e del tipo di vincolo che si deve instaurare tra gli stati aderenti, punto che non si è ancora riusciti chiaramente a definire nemmeno oggi, quando oltretutto l’ONU opera già da 50 anni. Soprattutto la composizione ed il funzionamento del Consiglio di Sicurezza appaiono in netto contrasto con il conclamato principio della parità a cui lo statuto dell'ONU afferma fermamente di ispirarsi. In esso è previsto il diritto dei 5 stati che ne fanno parte in modo permanente, di indirizzare l’azione dell’Organizzazione, bloccando, valendosi del diritto di veto, ogni iniziativa che talora contrasti con il loro programma e di annullare, con la semplice opposizione di un membro certe risoluzioni approvate a larga maggioranza. Il Consiglio di Sicurezza è inoltre riunito in maniera permanente, mentre l’Assemblea Generale, convocata in sessione annuale, ha un’importanza più rappresentativa che concreta sul piano delle decisioni politiche.

L’istituzione internazionale proposta da Kant è rivolta a tutti gli stati del Mondo che vi devono aderire liberamente, con una scelta consapevole e non imposta dall’esterno. Kant inoltre auspica una "Federazione di popoli che non deve essere uno Stato di popoli. In ciò infatti vi sarebbe una contraddizione, poiché ogni stato implica un rapporto di un superiore (legislatore) con un inferiore (colui che obbedisce cioè il popolo) [….]" e ciò porterebbe alla cancellazione dei singoli stati sotto il dominio di uno stato sovrano. "Da ciò deriva la necessità di un’associazione di natura speciale, che si può chiamare foedus pacificum (lega della pace) diversa da un pactum pacis in quanto quest’ultimo si propone semplicemente di porre fine ad una guerra, il primo invece si propone di porre fine a tutte le guerre per sempre". Kant sottolinea il fatto che di questa lega faccia parte almeno uno stato con una costituzione repubblicana. O meglio ancora afferma il nesso indiscindibile tra pace e libero sviluppo dell’uomo e rifiuta qualsiasi modello politico in cui i singoli cittadini debbano sottostare a delle decisioni dispotiche che in realtà non li rappresentano, in quanto anche se per Kant, uomo del suo tempo, la costituzione repubblicana non è l’antitesi della monarchia è tuttavia una forma di governo che deve rappresentare i cittadini, Questo perché sottraendo ai monarchi il potere decisionale assoluto sulla guerra e sulla pace, i cittadini penseranno bene prima di dare l’assenso per una guerra le cui calamità ricadranno sicuramente su di loro. "In una costituzione in cui il suddito non è cittadino e che pertanto non è repubblicana, la guerra è la cosa più facile del mondo poiché il sovrano non è membro di uno stato ma ne è proprietario [….] può quindi decidere la guerra alla stregua di una specie di partita di piacere per cause insignificanti e per salvare le apparenze, tranquillamente lasciare al corpo diplomatico, pronto in ogni tempo, il compito di giustificarli".

La politica è stata nei secoli caratterizzata e sottomessa alla "ragion di stato", in cui non pesavano gli interessi individuali, mentre Kant sostiene che è possibile uscire da questo situazione attraverso la ragione, che giudica se stessa e il suo passato e si assume la responsabilità della scelta. La politica deve subordinarsi alla morale e il politico deve agire collocando i principi della prudenza politica nello stesso orizzonte

della morale per realizzare una comunità politica internazionale.

I capisaldi, per così dire, di questo vero e proprio "decalogo" sono:

-No ai trattati bugiardi

-No alla violazione dei piccoli stati da parte dei più forti

-No agli eserciti permanenti

-No all’indebitamento con l’estero

-No alle ingerenze interne

-No all’uso di spie e di sicari

-Sì alla pubblicazione degli atti di governo

Quest’ultimo punto appare oggi particolarmente importante.

Kant indica infatti nella pubblicità degli atti politici e nella trasparenza di tutte le azioni che riguardano i cittadini la garanzia della moralità degli stati e dei sovrani. Ciò è sottinteso nello stato repubblicano di Kant dove il sovrano non può essere un monarca assoluto ed uno dei presupposti necessari per legittimare l’agire politico è la pubblicità degli atti. "Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è compatibile con la pubblicità, sono ingiuste".

Source

Libia/Tawargha: Incendi, terrore, caccia all'uomo - La città dei neri non esiste più

A Tawargha, in Libia, teatro della vendetta dei ribelli sui «mercenari»

TAWARGHA - Le palazzine bruciano piano. Un lavoro metodico, svolto senza fretta. Quelle che non si incendiano subito restano dimenticate per qualche giorno: porte e finestre sfondate, tracce di fumo sui muri, stracci di vestiti e schegge di mobili sparsi attorno. Poi gli attivisti della rivoluzione tornano ad appiccare il fuoco aiutandosi con la benzina ed il risultato è assicurato. Nei viottoli sporchi sono abbandonati alla loro sorte cani, galline, conigli, muli, pecore, mucche. Ogni tanto giunge una vettura dalla carrozzeria dipinta con i simboli del fronte anti-Gheddafi e si porta via gli animali. Gli orti sono secchi, è dai primi di agosto che nessuno si occupa di irrigarli. A parte il crepitare sommesso degli incendi, il silenzio regna sovrano. Una calma immobile, minacciosa, inquietante, spaventosa. Un benzinaio sulla provinciale poco lontano ci ha detto che non sarebbe difficile trovare la terra smossa delle fosse comuni. Ma è pericoloso, le pattuglie della guerriglia non amano curiosi da queste parti.
Sono le immagini della pulizia etnica di Tawargha, piccola cittadina una trentina di chilometri a sud-est di Misurata. Ricordano i villaggi vuoti della ex-Jugoslavia negli anni Novanta. L'episodio che con maggior forza due giorni fa ci ha trasmesso la gravità immanente dei crimini consumati in questa zona è stato l'incontro con quattro ragazzi della «Qatiba Namr», una delle brigate di Misurata nota per le doti di coraggio e resistenza dimostrati al tempo dell'assedio delle milizie scelte di Gheddafi contro la «città martire della rivoluzione» in primavera. «Qui vivevano solo neri. Negri stranieri. Nemici dalla pelle scura che stavano con Gheddafi. Ucciderli è giusto. Se fossi in loro scapperei subito verso sud, in Africa. Qui non hanno più nulla da fare, se non morire», affermano sprezzanti. Viaggiano su di una Toyota dalla carrozzeria coperta di fango. Sono tutti armati di Kalashnikov. Portano scarpe da tennis, magliette scure e blu jeans. Dicono di avere diciannove anni, ma potrebbero essere anche più giovani. Brufoli e sguardo di sfida, con il dito sul grilletto si sentono padroni del mondo. «Siamo venuti ad assicurarci che nessun cane nero cerchi di tornare. Devono sapere che non hanno futuro in Libia», sbotta quello che sta al volante. Sostiene di chiamarsi Mustafa Akil, però non vuole essere fotografato, così neppure gli altri.

A Tawargha ci siamo arrivati quasi per caso. Tornando da Sirte verso Tripoli, giunti poco prima delle periferie orientali di Misurata, è stato impossibile non vedere le colonne di fumo degli incendi. Sono almeno una ventina. Si nota in particolare una palazzina a cinque piani divorata dalle fiamme rosse che si allungano dai balconi. Nel parcheggio sottostante sono fermi almeno cinque pick up delle forze della rivoluzione. Ci avviciniamo. Ma i miliziani ordinano di restare lontani. «C'erano circa 40.000 negri. Sono partiti tutti. Tawargha non esiste più. Ora c'è solo Misurata», si limita a ripetere uno di loro, barba fluente e occhiali neri. Sui cartelli stradali il nome della città è stato cancellato con vernice bianca, al suo posto è scritto quello di «Nuova Tommina», un villaggio delle vicinanze che era stato attaccato dai lealisti in aprile.

La storia non è nuova. Le cronache della resa delle truppe fedeli al Colonnello a Tawargha contro le colonne dei ribelli di Misurata sostenuti dai bombardamenti Nato era arrivata il 13 agosto. E quasi subito Amnesty International e altre organizzazioni per la difesa dei diritti umani avevano denunciato massacri, abusi di ogni tipo e soprattutto deportazioni di massa. Unica scusa addotta dai ribelli era stata che proprio gli abitanti di Tawargha erano stati tra i più crudeli «mercenari africani» nelle file nemiche. Ma poi le cronache della caduta di Tripoli e gli sviluppi seguenti avevano preso il sopravvento. Il 18 settembre un inviato del Wall Street Journal citava il presidente del Consiglio Nazionale Transitorio, Mustafa Abdel Jalil, che dava il suo placet alla totale distruzione della cittadina. «Il fato di Tawargha è nelle mani della gente di Misurata», sosteneva Jalil, giustificando così appieno i crimini di guerra.

La novità verificata sul campo è però che la pulizia etnica continua. Nonostante le rassicurazioni contro ogni politica razzista e in difesa delle minoranze nere in Libia fornite a più riprese alla comunità internazionale dai dirigenti della rivoluzione, a Tawargha si sta portando a termine del tutto indisturbati ciò che era iniziato ad agosto. I muri delle case devastate sono imbrattati di slogan freschi contro i «murtazaka», come qui chiamano i «mercenari» pagati dalla dittatura di Gheddafi. Sono firmati in certi casi dalle «brigate per la punizione degli schiavi neri» e trasudano il razzismo più virulento. In verità, molti degli abitanti nella regione di Tawargha sono discendenti delle vittime delle razzie a caccia di schiavi organizzate in larga scala dai mercanti arabi della costa per secoli sino alla metà dell'Ottocento nel cuore dell'Africa sub-sahariana. Libici a tutti gli effetti, figli di libici, sono ora tra le vittime più deboli del caos e delle incertezze in cui è scivolato il Paese. Nessuno conosce ancora le cifre dei loro morti e feriti. Le nuove autorità di Tripoli non rendono noti i numeri dei prigionieri.

E quando la fanno sono spesso contradditori e impossibili da verificare. Di tanto in tanto si viene a conoscenza di ex abitanti di Tawargha arrestati nei campi profughi e nei quartieri poveri attorno a Tripoli. Le voci di violenze carnali contro le donne sono ricorrenti. Molti giovani sarebbero ora tra i combattenti irriducibili negli assedi di Sirte e a Bani Walid. Altri sarebbero riusciti ad unirsi ai Tuareg nel deserto verso Sabha. Sono motivati dalla consapevolezza che la «caccia al negro» non si ferma. Due giorni fa, durante gli scontri a Tripoli tra milizie della rivoluzione e sostenitori di Gheddafi, i primi ad essere arrestati erano i passanti di pelle nera.

Lorenzo Cremonesi | Corriere della Sera

domenica 16 ottobre 2011

Tra le forze speciali in Libia 40 uomini del Col Moschin di Gianandrea Gaiani

Anche la Legione Straniera è in azione in Libia per aiutare le milizie del Consiglio nazionale transitorio a chiudere la partita contro i lealisti che resistono a Sirte e Bani Walid e ieri, a sorpresa, hanno scatenato un blitz nel quartiere di Abu Salim a Tripoli.

La presenza di unità di forze speciali al fianco degli insorti libici (inviate dai singoli Stati e non dalla Nato) non è certo un mistero ma sembra avere proporzioni maggiori rispetto alle poche decine di incursori dei quali riferì in settembre un rapporto del Royal United Services Institute di Londra. Secondo quanto riferito al Sole 24 Ore da alcune fonti, in Libia sono operativi almeno una quarantina di incursori del 9° reggimento Col Moschin con missioni di ricerca degli obiettivi, affiancamento dei miliziani e il loro addestramento all'impiego di armi pesanti come i missili anticarro. Un contributo di rilievo, passato finora sotto silenzio alla stregua dei bombardamenti dei jet e del ruolo dell'intelligence che, da quanto è emerso ieri da fonti del Copasir, ha confermato che Gheddafi si nasconde nel Sud protetto dai tuareg, utilizza sosia per depistare le ricerche e potrebbe ancora controllare armi chimiche.

La Francia ha schierato in Libia oltre 200 militari incluse forze speciali incaricate di armare e addestrare i ribelli e individuare e distruggere gli obiettivi più importanti dei lealisti, specie nel deserto del Fezzan dove nei mesi scorsi un team di incursori francesi venne dato per disperso e dove ora questi uomini sarebbero impegnati nella caccia a Gheddafi. La componente francese più numerosa è però costituita da 150 militari della Legione Straniera originari in buona parte del Maghreb e dal Sahel. Soldati francesi che, per non dare nell'occhio, operano privi di uniforme e impiegano le stesse armi dei miliziani e ai quali sarebbe ora affidata la missione di imprimere una svolta all'assedio di Bani Walid dove, come a Sirte, le forze lealiste hanno inferto sonore sconfitte alle truppe del Cnt. Significativo anche lo sforzo britannico con un centinaio di soldati delle forze speciali e altrettanti contractor, ex militari di Sua Maestà arruolati dai governi di Qatar ed Emirati Arabi Uniti per addestrare e affiancare gli insorti.

Dopo sette mesi per gli specialisti europei la missione non sembra ancora conclusa per l'accanita resistenza dei lealisti e l'emergere di nuove minacce. Nel giorno in cui l'Eni ha ripreso le forniture di gas all'Italia attraverso il gasdotto Greenstream, il portavoce di Gheddafi, Moussa Ibrahim, ha esortato ieri i lealisti a distruggere «le condotte di gas e petrolio che riforniscono i Paesi colonizzatori della Nato».

Via | Il Sole

Violenze, abusi e torture: ecco la Libia del dopo Gheddafi

di Redazione

Tripoli. La situazione in Libia, anche sotto l'aspetto umanitario, non è affatto migliorata. Anzi. Tra violenze, abusi e torture, il Paese sembra essere scivolato in un vortice molto simile a quello instaurato dal vecchio regime di Muammar Gheddafi. Secondo l'ultimo rapporto di Amnesty International, la nuova Libia non è migliore della precedente, in quanto sussiste "un quadro di percosse e maltrattamenti nei confronti di soldati dell'esercito di Gheddafi, presunti lealisti e sospetti mercenari nella Libia occidentale". "In alcuni casi - prosegue il rapporto di Amnesty - sono state riscontrate evidenti prove dell'uso della tortura per estorcere confessioni o per punire i detenuti".
L'attenzione di Amnesty si è concentrata, in particolare, su undici centri di detenzione tra Tripoli e Al Zawiya, dove sono arrivati circa 2.500 prigionieri. Per almeno 300 di loro, come sostiene l'organizzazione per i diritti umani, non era stato emesso un mandato di cattura e spesso la loro incarcerazione era stata decisa non dall'autorità giudiziaria, bensì da consigli locali civili o militari o di brigate armate.
Nel corso delle interviste condotte da Amnesty International, alcuni membri del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) hanno ammesso le detenzioni arbitrarie ed i maltrattamenti e si sono impegnati ad assicurare che tutti i detenuti possano beneficiare delle tutele imposte dalla legge. Considerate le condizioni in cui versa il paese, dove si registrano ancora molte sacche di resistenza, sarà molto difficile che il panorama generale possa cambiare in tempi brevi.

Specificità italiana, la carta da giocare di Giuliano Amato

Chi teme nell'Europa del rigore che nessuno si preoccupi più della crescita aveva tempo addietro ragione di sentirsi da solo. Oggi non è più così e sembra anzi che stia accadendo il contrario. Esponenti politici di destra e di sinistra, testate prestigiose di orientamento progressista e conservatore, lo stesso Fondo monetario internazionale puntano i riflettori sulle ragioni della crescita e sulla necessità per i Governi di farsene carico. Noi stessi in Italia siamo in attesa di un "decreto sviluppo", che - si dice - dovrebbe smuovere una buona volta la nostra economia stagnante da anni.

Io mi auguro che sia così e parimenti mi auguro che approdi a qualcosa la robusta polifonia pro-crescita in atto in tutta Europa. Ma francamente ne dubito e non solo perché ancora non se ne dimostra sufficientemente convinta la Germania (almeno per quanto riguarda le politiche prioritarie da imporre ai Paesi più indebitati dell'Eurozona e gli strumenti da attivare in sede europea).

Ciò che più mi lascia perplesso è che molti degli appelli a favore della crescita sembrino astoricamente collocati in un vuoto, che prescinde da qualsiasi consapevolezza degli scenari concretamente prefigurabili per il nostro futuro.

Non a caso, quando poi andiamo a vedere i veicoli di crescita a cui ci si vuole affidare, ci troviamo davanti alla classica potatura di lacci e laccioli, alle liberalizzazioni ancora da fare ovvero, se si è eterodossi, a più spesa pubblica da trasformare in investimenti e servizi. Ora, sarò l'ultimo a negare che, in quanto possibili, tutte queste cose siano utili a stimolare l'economia. Ma nessuno mi leva il sospetto che, se qui ci fermiamo, allora vuol dire che in realtà pensiamo alla crescita in chiave di amarcord e ci siamo dimenticati di ciò che, nei primi mesi della grande crisi finanziaria di tre anni fa, sembravamo aver capito tutti quanti. La crisi era finanziaria e tuttavia ne saremmo usciti non soltanto con rimedi finanziari, ma anche prendendo atto di cambiamenti economici destinati a segnare profondamente la nostra vita futura; e a segnare soprattutto, in chiave non trionfale, la vita delle aree ad oggi più avanzate, a partire dagli Stati Uniti e l'Europa.

È in queste aree che la tecnologia ha già prodotto effetti devastanti sulla produzione di posti di lavoro da parte in primo luogo (ma non solo) del settore manifatturiero. Ed è in queste aree che più si pagano gli effetti negativi della facilità per le imprese di produrre beni e servizi in parti diverse del mondo. Certo, per molti anni le imprese che ancora producono in Occidente hanno la prospettiva di compensare con l'esportazione nei Paesi emergenti la riduzione di domanda interna conseguente ai fenomeni testé descritti. Ma anche questi flussi verso l'estero incontreranno limiti crescenti via via che quei Paesi aumenteranno la loro produzione interna e soddisferanno così loro stessi quote più ampie della loro domanda interna. Del resto, se leggiamo le previsioni a lungo termine, i numeri sono chiari. Fra una trentina d'anni i tassi di sviluppo di inizio secolo sull'orlo delle due cifre si saranno ridimensionati. Ma con l'Occidente attestato, nel migliore dei casi, ad un tasso fra l'uno e il due per cento medio, il resto del mondo viaggerà mediamente attorno al doppio.

Via | ilsole24ore

sabato 15 ottobre 2011

18:15 - Indignados italiani sulla Pzz S. Giovani di Roma: LE BANCHE HANNO VINTO!

Una manifestazione cosi non avevo mai visto. Il popolo indignado che scende per strada per parlare, capire la crisi, ascoltare...

La bellezza di questo evento e' l'assenza di un centro: tutti sono il centro, una democrazia reale nel 2011. Comunque vada la gente e' scesa per manifestare il proprio malcontento dell'attuale situazione politico-sociale.

Tutto si sposta al Circolo Massimo, ci auguriamo che almeno li, lontani dal casino, dalle sirene della polizia, dai provocatori, la gente possa parlare, conversare, riflettere e fare nuove relazioni.

Yes we camp!

Ecumene24 - Conoscere per Decidere!

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18:05 - Indignados italiani sulla Pzz S. Giovani di Roma: La manif si sposta al Circolo Massimo.

18:05 - Indignados italiani sulla Pzz S. Giovani di Roma: la manifestazione si al Circolo Massimo.

La gente vuola parlare, vuole dialogare, vuole capire cosa sta succedendo, ma tutto e' saltato.

Adesso l'organizzazione dell'evento ha deciso di spostare tutto al CIRCOLO MASSIMO.

Che fare? Andiamo!
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Indignados italiani sulla Pzz S. Giovani di Roma 16:47 - la polizia carica, la gente scappa!

Si sta facendo di tutto per boicottare questo evento. Le cariche contro i civili accampati nessuno sono state terribili. Che dire del gas lacrimogeni al peperoncino?
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17:10 - Indignados italiani sulla Pzz S. Giovani di Roma: 17:10 - Il popolo continua il piazza!

La polizia carica, lancia tutti i gas pericolosi ma il popolo continua qui, un evento senza centro, un momento unico.

Il gas FA MALE agli occhi, cosi si piange la crisi e si soffre anche per il gas*
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Indignados italiani sulla Pzz S. Giovani di Roma: UNA FESTA DI POPOLO.

Indignados italiani sulla Pzz S. Giovani di Roma: UNA FESTA DI POPOLO.

Continua la manifestazione romana del popolo degli INDIGNADOS. Non Paghiamo la Vostra Crisi.

MA, ma ci sono gli infiltrati, ci sono poi i Blackblok. Si fa di tutto per distruggere questo evento. Niente da fare, gli interessi in gioco sono superiori.
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Indignados italiani riempiono la Piazza S. Giovani di Roma.

Indignados italiani riempiono la Piazza S. Giovani di Roma.

Il casino che la TV fa vedere non c'entra con la vera manifestazione di centinaia di giovani e adulti contra il capitalismo corrotto.

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Indignados italiani a Roma...

La Pzz S. Giovani si riempie.
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“INDIGNADOS”, le proteste in varie parti del mondo | Roma è blindata si aspettano 200mila persone

Una manifestazione "globale" come Globale è ormai il movimento degli "indignati", la protesta di giovani, disoccupati e precari nata lo scorso maggio in spagna sull'onda della crisi economica: nella giornata di oggi, a cinque mesi esatti dallo scoppio della protesta il 15 maggio a Mdrid, saranno quasi 1000 le concentrazioni e i cortei in tutto il mondo. Secondo gli organizzatori, 952 città in oltre 82 paesi saranno interessate dalla protesta. A Roma attese 200mila persone, blindate le zone di passaggio della manifestazione. Ad aprire i cortei mondiali, le manifestazioni a Tokyo, Taipei e Sydney.

13:59Partito il corteo 17 - “E' partito con qualche minuto d'anticipo il corteo degli indignati a Roma. La grande quantità di manifestanti ha convinto gli organizzatori a far muovere il serpentone la cui testa è già tra via Cavour, all'altezza della Basilica di Santa Maria Maggiore. Tra gli striscioni si nota uno che recita: 'No tav, no ponte'.

13:38Roma, Aurigemma: "Prevarrà buon senso"16–"È gia' notevole l'afflusso di persone e mezzi in vista del corteo che si sta per svolgere. Stiamo monitorando la situazione dalla Sala Sistema Roma: alcune stazioni della Metropolitana, come concordato con la Questura, sono chiuse ed e' scattato anche il piano per la mobilita' di superficie". È quanto dichiara l'assessore alla Mobilita' di Roma Capitale, Antonello Aurigemma. "Siamo convinti - conclude l'assessore - che il buon senso prevarra' e che il diritto a manifestare il proprio dissenso non andra' a ledere il diritto dei cittadini romani a muoversi in citta'".

13:37Roma, corteo a piazza Indipendenza15–Il corteo degli studenti de del teatro Valle sta attraversando piazza Indipendenza. I manifestanti intonano cori contro il ministro Tremonti e la polizia. Alcuni ragazzi indossano felpe nere e camminano con caschi in mano.

13:22Prefetto Roma: "Situazione sotto controllo"14–"La situazione è sotto controllo". Queste le parole del Prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, che ai microfoni di Sky Tg24 ha fatto riferimento alla manifestazione degli 'Indignados' in corso oggi nella capitale. "Ci auguriamo - ha proseguito il prefetto - un dissenso democratico da parte dei manifestanti. Le forze dell'ordine sono fortemente impegnate ma non ci sono allarmi particolari".

13:02Ferrero: "Se Draghi d'accordo con indignati cambi politica"13–"Se Draghi ritiene che il movimento ha ragione cambi radicalmente politica a partire dal mettere la mordacchia al capitalismo finanziario e speculativo di cui lui è espressione piena". E' Paolo Ferrero, Prc, a commentare le parole del governatore di Bankitalia, Mario Draghi, sulla protesta degli 'indignati' in Italia e non solo.

12:51Arrivati 70 pullman a Roma12–Sono 70 i pullman che sono arrivati nella Capitale, transitando per il casello di Roma Sud, per partecipare alla manifestazione degli indignati che partirà alle 14 da piazza della Repubblica. A quanto si apprende alle 12;20 nella stazione di Anagnina erano già arrivati circa 50 autobus.

12:44Camion teatro Valle accolto da ovazione a piazzale Moro11–Un camion coloratissimo, quasi un carro allegorico, ha fatto il suo ingresso a piazzale Aldo Moro, luogo scelto dagli studenti per partire ed aggregarsi alla manifestazione di Roma. Una vera e propria ovazione ha accolto il carro che recava anche striscioni del Teatro Lido di Ostia e dell'ex cinema Palazzo, quest'ultimo divenuto base operativa degli studenti dei 'Draghi ribelli' dopo la smobilitazione dell'accampamento al Palazzo delle Esposizioni.

12:43Draghi: "Comprendo, ma protesta non degeneri"10–il Governatore di Bankitalia Mario Draghi dà ragione ai giovani, ma chiede che la protesta non degeneri. "Se la prendono con la finanza come capro espiatorio, ma li capisco - ha detto il prossimo governatore della Bce, in una conversazione informale con la stampa a margine del G20 a Parigi - hanno aspettato tanto, noi all'età loro non lo abbiamo fatto". Draghi ha poi però ammonito: "la protesta non degeneri".

12:34Chiuse quattro stazioni metro a Roma9–Come disposto dal questore di Roma, alle 12 è scattato il piano della mobilità relativo alla manifestazione per la giornata mondiale degli indignati. Sono state quindi chiuse le stazioni della metropolitana cavour, colosseo, barberini e spagna. Per quanto riguarda i treni, transitano comunque regolarmente anche se non fermano alle stazioni interdette.

12:26Roma, si riempie piazza della Repubblica8–Si sta riempiendo piazza della Repubblica in vista del corteo degli indignati che partirà intorno alle due di questo pomeriggio. Sono centinaia già i manifestanti giunti in piazza da diverse parti d'Italia con treni e pullman. Tra gli striscioni esposti uno recita: "Quando l'ingiustizia diventa legge ribellarsi è un dovere". Diversi carri di sindacati e associazioni sono già posizionati all'ingresso della piazza e a fasi alterne diffondono musica. "Pomigliano non si piega", si legge su alcune t-shirt indossate da alcuni indignati. "Una sola soluzione: la rivoluzione", campeggia su uno striscione firmato Red Block. Mentre un altro promette: "15 ottobre: scenderemo in piazza a milioni".

12:17Indignati: "Ci accamperemo in migliaia a Roma"7–"Ci accamperemo in migliaia". E' la promessa dei ragazzi di Atenei in rivolta che si stanno preparando a partire, insieme ai draghi ribelli, dalla sapienza di roma per partecipare al corteo degli indignados. "La manifestazione da sola non basta più- spiega giorgio sestili, di atenei in rivolta- serve un presidio permanente perchè questa crisi e questo debito noi non li vogliamo pagare. Li fanno cadere su di noi ma all'origine ci sono le banche che puntualmente vengono salvate dai governi".

12:14Di Pietro: "Cortei siano indignati ma pacifici"6–Il leader dell'Idv Antonio Di Pietro, lancia un appello affinchè i cortei di oggi si svolgano pacificamente. "Proprio perchè so quanto fondati siano i motivi della protesta e quanto sia comprensibile la rabbia che cova, soprattutto fra i giovani, voglio lanciare un appello perchè nonostante tutto sia mantenuta la calma e la manifestazione sia tanto indignata quanto civile e pacifica, senza incidenti che farebbero comodo solo a Berlusconi e alla sua propaganda bugiarda", scrive Di Pietro nel suo blog.

11:54Draghi: "Giovani hanno ragione"5–"Se siamo arrabbiati noi per la crisi, figuriamoci loro...", queste le parole del governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, prossimo vertice della Bce

11:38Casini: "Più preoccupato da indignati non in piazza"4–"Mi preoccupano molto di più quelli che non vanno in piazza, che aumentano ogni giorno, perchè vedono il governo distante anni luce dai problemi che li riguardano". Lo ha detto Pierferdinando Casini, leader dell'Udc, a margine del convegno "l'economia olre la crisi" in corso a stresa, commentando la manifestazione nazionale di oggi a Roma.

11:29Devastate carrozze treno a Cassino, un fermato3–Alcuni manifestanti che intendevano partecipare al corteo degli Indignati a Roma hanno devastato due carrozze di un treno che dal sud li portava a Roma. E' avvenuto all'altezza di Cassino, nel Frusinate, secondo quanto riferito dalla Polfer del Lazio. Una persona è stata fermata e 4 sono state denunciate.

11:28Bombassei: "La protesta sia propositiva"2–E' "giusto" secondo il vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, che ogni tanto i giovani scendano in piazza. "L'importante - ha detto a margine di un convegno a Stresa - è che siano propositivi, non ci sia il caos per far caos".

11:27Roma, attesi 750 pullmann da 80 province1–Sono circa 80 le province italiane dalle quali si prevede l'arrivo di manifestanti per il corteo degli Indignati di oggi pomeriggio a Roma. Tra le province con il maggior numero di partecipanti attesi alla manifestazione ci sono Milano, Genova e altre dell'Emilia Romagna e della Toscana. Intanto ai caselli autostradali intorno alla capitale sono già in transito i pullman: ne sono attesi circa 750. Gli organizzatori stimano che per l'I-Day potrebbero sfilare in corteo tra le 100 mila e le 200 mila persone. Di fronte all'Università La Sapienza, in piazzale Aldo Moro, si stanno radunando i primi gruppi di studenti, il cui corteo è previsto che si muova verso le 12 per confluire in quello principale che partirà da piazza della Repubblica.

Libia/Nuova colonizzazione: i ribelli si danno al saccheggio ma i giornali non parlano.

Libia/Nuova colonizzazione: i ribelli si danno al saccheggio ma i giornali non parlano.

Questa e' la democrazia voluta dalla Nato, questa e' la "protezione dei civili", parola che abbellisce la bocca di vari politici europei per giustificare questa sporca guerra.

Ricordare che la guerra voluta da Sarkozy, Cameron ed il premio nobel per la pace 2010, Barack Obama, ha fatto ormai 50.000 morti. Chi risponderà per queste morti?
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Ecumene24 la voce degli Indignados 15 Ottobre 2011

Oggi tutto prende vita!
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venerdì 14 ottobre 2011

La Coca Cola alla guerra in Cina "Hanno copiato la nostra bibita"

Shanghai - Tutto uguale: la bottiglia, l'etichetta, il colore della bevanda, pure il sapore. Così, almeno, la pensa la Coca Cola, che accusa la nota marca di acqua minerale cinese "Nongfu Spring" di aver copiato, per la sua bevanda «Victory Vitamin Water», l’idea e il disegno della sua «Glaceau Vitamin Water». Neanche a dirlo, il "clone" cinese costa molto meno della bibita americana.
Lo riferisce il quotidiano China Daily. Secondo la stampa locale i problemi tra le due aziende sarebbero cominciati già all’inizio del 2011 quando la Coca-Cola chiese alla Nongfu di rivedere il design della bottiglia e dell’etichetta della sua bevanda al gusto di frutta, ritenuta troppo simile alla propria. Zhou Li, portavoce della Nongfu Spring, ha fatto sapere che le accuse della Coca-Cola sono prive di fondamento e non hanno sostanza legale, considerando che la Nongfu Spring ha ottenuto un regolare brevetto per l’impacchettamento e il design della «Victory Vitamin Water».
Zhou ha anche aggiunto che il costo della bevanda della Coca-cola è molto più alto del loro. Attualmente una bottiglia della bevanda della Nongfu costa intorno ai 4 yuan, circa 40 centesimi di euro, circa un terzo del costo della «Glaceau Vitamin Water». Intanto il capo del dipartimento affari pubblici e comunicazione della Coca-cola ha fatto sapere che almeno per il momento la sua azienda non intende effettuare azioni legali contro l’azienda cinese ma semmai proseguire sulla strada dei colloqui.

Governo, sì della Camera alla fiducia Berlusconi salvo: "Agguato sventato" L'opposizione: è alla fine, perde pezzi

Radicali in Aula, fallisce il blitz di Pd, Idv e Udc: 316 sì, 301 no. Napolitano torna sull'incidente in Parlamento: "Nessun obbligo di dimissioni, problema politico"

Il governo raggiunge 316 voti, un risultato che consente a Silvio Berlusconi di tirare un sospiro di sollievo, dopo una mattinata ricca di tensione e di defezioni dell’ultima ora: «Abbiamo sventato un agguato», commenta a caldo il premier dopo aver fatto la spola tra l’Aula e la sala del governo cercando di convincere in extremis i più riottosi come Luciano Sardelli, ex capogruppo dei Responsabili che, dopo un faccia faccia con il Cavaliere, conferma l’intenzione di non partecipare al voto certificando il suo addio dalla maggioranza.
LA GIORNATA
La tensione in Transatlantico è palpabile fin dalla mattina presto quando decine di parlamentari si ritrovano alla Camera ben prima dell’orario di convocazione. A tenere banco sono le assenze mirate nelle file del centrodestra (Giustina Destro e Fabio Gava), quelle forzate di Alfonso Papa e Pietro Franzoso. Il rischio che fino all’ultimo terrà la maggioranza in fibrillazione è la possibilità che sommando i voti mancanti a quelli dell’opposizioni non si raggiunga il numero legale per la votazione. Ipotesi che alla fine non si realizza tanto che tutta la maggioranza in blocco, a partire dal capo del governo, punta il dito contro il mancato «agguato» dell’opposizione.
I TIMORI DEL PREMIER
Il Cavaliere, improvvisando una conferenza stampa nel corridoio che porta nell’emiciclo, bolla la decisione di Pd-Udc-Fli e Idv di non votare alla prima chiama come «uno dei vecchi trucchi del più bieco parlamentarismo» che «offre una immagine su cui gli italiani rifletteranno». Nonostante la fiducia però i numeri, già risicati per il governo, subiscono un ulteriore assottigliamento ecco perché è lo stesso premier ad annunciare che «si trasferirà in Parlamento» facendo della Camera «la sede principale di lavoro». Concetto ribadito anche ai ministri nel corso della riunione del Cdm: bisogna stare il più possibile in Aula a garantire la maggioranza durante le votazioni. Bossi però non si sbilancia: «Se il governo regge fino al 2013? Non lo so», dice il Senatùr. Che poi avverte il premier: «Berlusconi andrà al voto, quando lo decido io». Secondo Bersani «la vittoria del governo è di Pirro» perché «la maggioranza perde pezzi e morirà di fiducia». Casini si consola citando Mao: «La strada è a zig zag ma il futuro è luminoso»
LE NOMINE
La rinnovata fiducia non calma infatti le acque nella maggioranza. La decisione del Pdl veneto di espellere dal partito Giustina Destro e Fabio Gava fa discutere, così come le "promozioni" in Cdm di Catia Polidori e Aurelio Misiti a vice ministri e l’ingresso di Giuseppe Galati come sottosegretario all’Istruzione. Il premier, seppur in privato, non nasconde la preoccupazione per i numeri, mostra di voler andare avanti annunciando per la prossima settimana la presentazione del decreto sviluppo. Argomento discusso anche con il Capo dello Stato in un colloquio formale di 40 minuti in cui oltre alle misure per la crescita l’altro argomento di discussione è stato la nomina del successore di Mario Draghi alla Banca d’Italia. Un nodo ancora tutto da sciogliere. Il rischio di andare sotto con i numeri ha avuto però l’effetto di placare, almeno per il momento, la guerra nel governo contro Giulio Tremonti.
LO PSICODRAMMA DEL VOTO
In mattinata per la maggioranza sembrava mettersi male. Il numero legale pareva a rischio. Poi i radicali entravano in Aula tra gli sguardi increduli dei colleghi dell’opposizione rimasti fuori dall’emiciclo. Il Pdl ha vissute ore di fibrillazione: l’ex capogruppo dei Responsabili, Luciano Sardelli, incontrava Berlusconi e subito lasciava Montecitorio, annunciando che non avrebbe votato la fiducia. Stesso discorso valeva per i due pidiellini scajoliani Giustina Destro e Fabio Gava, che proprio non si sono presentati in aula. Poi il risultato parziale della prima chiama faceva tirare un sospiro di sollievo a Berlusconi: radicali e Svp partecipavano alle votazioni e garantivano la validità del voto. Alla fine il governo regge e incassa la cinquantatreesima fiducia. Ma Scajola - che ha votato la fiducia - avverte: «Dopo la fiducia di oggi bisogna fare un grande cambiamento, altrimenti andremo asbattere».
IL QUIRINALE
Mentre la Camera votava la fiducia al governo, Giorgio Napolitano ha spiegato per iscritto la natura delle sue preoccupazioni istituzionali. Il Capo dello Stato non ha preteso che Berlusconi rassegnasse il mandato: «Non ho ritenuto che vi fosse un obbligo giuridico di dimissione a seguito della reiezione del Rendiconto» ma era «necessaria una verifica parlamentare della persistenza del rapporto di fiducia, come lo stesso Presidente del Consiglio ha fatto». Poi, in serata, il Presidente della repubblica ha ricevuto per mezz’ora al Quirinale il premier. Al Cavaliere ha chiesto cosa intende fare, ora che il suo governo è tornato in pista a pieno titolo con il voto di fiducia, e cosa il Colle si attende da lui: una rapida approvazione della Legge di Stabilità finanziaria, appena licenziata dal Consiglio dei Ministri, il varo dei promessi provvedimenti per lo sviluppo e la crescita, la nomina del successore di Mario Draghi alla Banca d’Italia, anch’essa in ritardo. Su quest’ultima questione pare che il presidente del Consiglio abbia prospettato difficoltà ancora da superare.
LA RISPOSTA AI CAPIGRUPPO
Ma la giornata di Napolitano è passata anche attraverso un’articolata risposta ai capigruppo della maggioranza che avevano sollevato, inviandogli una lettera, vari dubbi: sul comportamento del presidente della Camera e sulle critiche dell’opposizione alla scelta di sanare il vulnus del rendiconto con un voto di fiducia. Napolitano ha risposto a stretto giro di posta. In occasioni simili, ha detto, altri presidenti del Consiglio si sono presentati dimissionari, c’era dunque una prassi, ma non c’era nessun obbligo giuridico da far valere. Però una verifica della fiducia era «necessaria» e c’è stata. Quanto agli «interrogativi» e alle «preoccupazioni» che aveva manifestato dopo la sconfitta del governo sul rendiconto, Napolitano ha detto che erano più che giustificate e si riferivano «al contesto generale»: alla situazione di un governo che subiva quella battuta d’arresto dopo che al suo interno, in modo «innegabile», erano emerse «acute tensioni» che hanno frenato «decisioni dovute e annunciate» (sui temi oggetto del colloquio di oggi al Quirinale). In questa occasione, ha ribadito, il ricorso alla fiducia era dovuto, ma il governo «non dovrebbe eccedere» con questi voti perchè ciò determinerebbe «una inaccettabile compressione delle prerogative delle Camere». Una critica neppure tanto velata al disinvolto ricorso alla fiducia per superare le divisioni della coalizione.
"CHIARIMENTO POLITICO"
Quanto alla mancata approvazione del Rendiconto dello Stato, sottolinea, occorre porre rimedio. Come? Ripresentando lo stesso testo. L’esecutivo aveva cercato di chiudere l’incidente in corsa, riapprovando lo stesso provvedimento in quattro e quattr’otto. Napolitano si è opposto e oggi ha detto apertis verbis il perchè: «Era opportuno che ciò avvenisse dopo il chiarimento politico e previa nuova verifica» da parte della Corte dei Conti, «come poi è in effetti avvenuto». Oggi, nella lettera ai capigruppo il Capo dello Stato ha richiamato alcuni passaggi essenziali delle sue note che hanno scandito la verifica parlamentare. Non ha ripetuto il forte richiamo all’efficienza del governo e alla necessità che la maggioranza sia coesa, perchè sono stati gli stessi capigruppo della maggioranza a farlo citando testualmente le sue parole e aggiungendo: «ne siamo consapevoli». Ma quel richiamo probabilmente Napolitano lo ha fatto direttamente a Berlusconi quando è andato a trovarlo, quando gli ha presentato la lista delle decisioni «dovute o annunciate» da mettere a punto. Tra esse Napolitano tiene in particolare a quelle per stimolare la crescita, dare risposte ai giovani, attuare la manovra finanziaria, mettere al sicuro i conti pubblici.

Via | La Stampa

Italia/Crisi: Stato del paese e nomina Bankitalia in analisi tra Napolitano e Berlusconi

Le persistenti difficoltà per giungere alla nomina del prossimo governatore della Banca d'Italia e le prossime prove parlamentari da affrontare sono state al centro del colloquio, durato mezz'ora, che si è svolto oggi pomeriggio al Quirinale tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ed il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

A quanto è dato di sapere, è stata esaminata la situazione dopo l'avvenuto voto di fiducia alla Camera, alla luce delle prossime prove per la maggioranza. Queste partiranno dalla legge di stabilità finanziaria, approvata sempre oggi dal Consiglio dei Ministri, e vedranno anche le procedure per il varo del provvedimento per lo sviluppo. Sono state anche toccate le difficoltà per la proposta del nuovo governatore di Bankitalia. Difficoltà che "sono da superare".

Governo Berlusconi/Crisi 2011: Giorgio Napolitano difende Gianfranco Fini da Pdl

fini camera voto

La maggioranza contesta l'operato di Gianfranco Fini, il presidente della Repubblica Napolitano risponde ai capigruppo del Pdl, Lega e Pt che il presidente della Camera ha agito usando i suoi poteri. Aggiungendo che la bocciatura dell'articolo 1 del rendicondo non implica le dimissioni del governo. Ma chiarisce anche che la richiesta del voto di fiducia «non dovrebbe eccedere limiti oltre i quali si verificherebbe una inaccettabile compressione delle prerogative delle Camere». In sostanza schiaccia il ruolo del Parlamento.
L'interpretazione che Fini ha dato del significato preclusivo della bocciatura dell'articolo 1 del Rendiconto generale dello Stato «è materia che rientra pienamente nei poteri del Presidente dell'Assemblea», fatto salvo il diritto di dissentire, ha scritto Giorgio Napolitano ai capigruppo del Pdl.
«Non ho ritenuto, confortato del resto dalla dottrina, espressasi anche nell'articolo del presidente Onida da me vivamente apprezzato, che vi fosse un obbligo giuridico di dimissione a seguito della reiezione del Rendiconto», scrive ancora il presidente della Repubblica nella lettera.
«Per quanto concerne la composizione della Giunta per il regolamento, il presidente Fini ha risposto in Aula alle contestazioni formulate, anche se resta vostro diritto considerare aperta la questione», prosegue il testo. I capigruppo di maggioranza ieri hanno inviato una lettera a Napolitano sollevando la questione della composizione della Giunta per il regolamento di Montecitorio, a loro avviso disequilibrata a danno del governo dopo la costituzione del gruppo di Futuro e Libertà.

Via | L’Unità

martedì 11 ottobre 2011

Perché gli italiani non si ribellano: “perché la grande maggioranza delle persone non sa la verità.”

di Marco Travaglio

All'estero se lo chiedono tutti. ma la risposta è semplice: perché la grande maggioranza delle persone non sa la verità. Essendo informata da un sistema televisivo che rifila loro una balla dopo l'altra. Ah, a proposito: si chiama regime

(10 ottobre 2011)

Ad Anne Wintour, direttrice di "Vogue", che si domanda cosa aspettino gli italiani a ribellarsi, qualcuno dovrebbe spiegare quante notizie arrivano alla gran parte degli italiani: poche e perlopiù taroccate. Anni fa Giovanni Sartori spiegò che l'Italia è "un regime" perché "nelle democrazie le bugie hanno le gambe corte", mentre qui, con il controllo politico sull'informazione che conta, "hanno gambe lunghissime". C'è solo l'imbarazzo della scelta.
Fiumi di parole e di inchiostro per stigmatizzare lo scandalo delle "100 mila intercettazioni" dell'inchiesta di Bari sulle escort del duo Tarantini&Berlusconi. "Cose da pazzi, e il Csm zitto", tuona Angelo Panebianco sul "Corriere". Persino il cardinale Angelo Bagnasco, per indorare l'anatema contro i "comportamenti licenziosi" del premier, denuncia "l'ingente mole di strumenti d'indagine". E tutti a ripetere a pappagallo quella cifra astronomica senza prendersi la briga di verificarla. Bene, sapete quante sono le persone intercettate per mesi dalla Guardia di Finanza di Bari nell'inchiesta sul mega-giro di prostituzione, cocaina e tangenti messo in piedi da Tarantini? Quindici, diconsi 15.
Centomila sono i "contatti" complessivi: cioè le telefonate e gli sms in arrivo e in partenza dalle numerose utenze fisse e cellulari dei 15. Più le conversazioni captate dalle "ambientali" (le cimici) in abitazioni, automobili, uffici: ogni volta che una persona presente nel luogo "ascoltato" inizia a parlare, si conta un contatto; poi segue il silenzio, rotto da una nuova frase che costituisce un altro contatto. Così, per mesi e mesi, si arriva al totale di 100 mila. Altro che "cose da pazzi" e "ingente mole".
Altro scandalo: Minzolini indagato per non avere reintegrato Tiziana Ferrario. Lui strepita nel solito editoriale: "Mi vogliono intimidire". "Il Giornale" spara: "Chi difende il Cav deve pagare. Indagano pure il Tg1". E "Libero", a ruota: "Lo attaccano per aver cacciato la Ferrario". Poi si scopre che Minzolini è indagato perché la Ferrario ha vinto la causa in primo e in secondo grado per il demansionamento subìto "per motivi politici", il giudice ha ordinato a Minzolini di reintegrarla al suo posto e Minzolini se n'è infischiato. Purtroppo in Italia, come in ogni Stato di diritto, disobbedire a una sentenza esecutiva è reato: abuso d'ufficio e inosservanza dell'ordine del giudice.

Altra bufala: tutti i giornali, fuorviati da un lancio farlocco di agenzia, annunciano che l'8 novembre inizierà alla Corte d'appello di Caltanissetta il processo di revisione per Bruno Contrada, condannato in Cassazione a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Esultano Contrada, il suo avvocato e il solito coro di trombettieri. Peccato che non sia vero niente: all'udienza dell'8 novembre la Corte deciderà solo se ammettere o respingere l'ennesima richiesta di revisione (dopo che altre due erano finite nel nulla).
Ultima patacca: secondo 50 scienziati e quasi tutta la stampa italiana, il processo iniziato all'Aquila contro i membri della commissione Grandi Rischi della Protezione civile, accusati di omicidio colposo plurimo per i morti del terremoto del 2009, sarebbe una follia e una grave violazione della libertà scientifica. Perché, ripetono tutti a pappagallo, "i terremoti non si possono prevedere", dunque non ha senso processare chi non previde il sisma dell'Aquila. Già, ma i cervelloni della Grandi Fiaschi sono imputati per avere previsto che non ci sarebbe stato alcun terremoto, rassicurando la popolazione che fino a quel giorno, in sei mesi di sciame sismico, a ogni scossa scendeva in strada e dormiva all'addiaccio, mentre dopo le rassicurazioni dei Bertolaso Boys molti si tranquillizzarono e ripresero a dormire a casa, dove li colse la scossa fatale del 6 aprile, e in 309 morirono sotto le macerie.
Basta un pizzico di logica per comprendere che, se non si può prevedere che un terremoto ci sarà, non si può nemmeno prevedere che non ci sarà: chi lo fece, il 31 marzo 2009, diffuse notizie fasulle. L'esatto contrario di ciò che dovrebbe fare uno scienziato serio. Lo scrive, in uno splendido articolo su "Nature" ripreso da "Internazionale", il giornalista inglese Stephen S. Hall. Anche se conosce poco l'Italia. O forse proprio per questo.

Via | Espresso

lunedì 10 ottobre 2011

Colonizzazione Italiana: La guerra in Libia del 1911 constitui il primo conflitto "mediatico"

Convegno all'Università di Tor Vergata sulla "copertura mediatica" della conquista italiana della colonia in Africa. Ritrovati nel museo di Porta Pia due filmati inediti. Un modello di comunicazione mai realizzato prima che anticipa lo sforzo propagandistico del regime fascista

Cento anni fa l'Italia dava il via, con la guerra di Libia, ad una delle pagine più controverse della sua storia. Per molto tempo quel conflitto è rimasto sepolto sotto il peso di altri momenti importanti del Novecento, prima fra tutte l'immediatamente successiva Prima guerra mondiale. Eppure quei due anni di campagna coloniale hanno cambiato radicalmente,  e non solo per l'Italia, il modo di fare e di raccontare la guerra. 
Per la prima volta l'innovazione nella tecnologia bellica, che fu enorme,  cedette il passo all'uso propagandistico della stessa. Corazzate, sommergibili, automobili, mezzi cingolati, draken ballon, dirigibili e perfino aerei (che in questo conflitto iniziarono a lanciare bombe), vennero infatti fin da subito affiancati, con l'intento di potenziarne l'effetto, da mezzi e strategie di carattere più strettamente mediale. Ecco dunque arrivare il volantinaggio sul nemico dall'alto (provato solo poche settimane prima nella guerra franco-marocchina), il radiotelegrafo mobile (usato qui per la prima volta in battaglia grazie all'arruolamento di Guglielmo Marconi come ufficiale "in servizio non effettivo"), la prima rete di servizi nazionali di Intelligence (a lungo creduta invece di formazione più tarda), la fotografia giornalistica (che grazie anche alla grande diffusione delle macchina Kodak trovò subito una grande estensione), il pezzo sulla stampa quotidiana (che arrivò a fagocitare insieme a brillantissimi reportage di guerra, anche decine e decine di lettere di soldati dal fronte, facendo emergere, in modo esplosivo, l'esistenza di una scrittura popolare), le canzoni a tema nazionalistico (ora anche veicolate dal nuovo strumento del disco) e soprattutto la presenza costante, sul teatro della guerra, di operatori cinematografici, un fenomeno questo che solo adesso trova un ampio spazio organico all'interno della comunicazione delle notizie belliche.

La colonizzazione della futura terra libica si trasformò, quindi, in un processo di comunicazione a due tappe dall'Oltremare  verso l'Italia e da questa verso il resto del mondo; diventando qualche cosa di più di una semplice avventura coloniale e arrivando a giocare un ruolo fondamentale in quella costruzione del senso di unità nazionale, che tendeva ad avvincersi intorno al tema del grande balzo tecnologico, del nuovo ruolo di protagonista dell'Italia nella scena della modernità.
Vari, com'è noto, furono gli interventi di importanti letterati italiani in lode di questa guerra, dal discorso di Pascoli alle canzoni di d'Annunzio alle prose sulla battaglia di Tripoli del futurista Marinetti, che arrivato come corrispondente del francese "L'Intransigeant", qui, per la prima volta,  vide in un sol luogo mitraglie, aerei, radiotelegrafi, e macchine cinematografiche, elaborando in breve quello che sarà il nucleo poetico dello "Zang Tumb Tumb". E vari furono anche gli interventi polemici o fortemente critici di giornalisti di rilievo come Papini, Prezzolini, Salvemini. Questo conflitto senza precedenti, ha però lasciato, anche al di fuori di sentieri battuti come quelli della grande letteratura, molte tracce di sé, in gran parte ancora inesplorate. Fra queste: fotografie, quotidiani, diari di guerra, lettere, canzoni di guerra e canzoni di protesta, cartoline postali, cine attualità e cine-cartoline, questo ultimo caso unico di cinematografie fatte per conto del Governo ai parenti dei militari rimasti in Italia per essere a essi proiettate nelle zone di guerra. Molte di queste tracce, tra le quali una pellicola ritrovata nel museo dei Bersaglieri di Roma (Porta Pia) e restaurata dalla Cineteca di Stato, verranno presentate nel corso del convegno, con l'idea dare la giusta importanza ad una guerra per troppo tempo dimenticata.
Fra il 28 dicembre 1911 e l'8 marzo 1911, vennero realizzate in tutta Italia, a titolo gratuito numerose riprese ai parenti dei militari in guerra. Esse avevano lo scopo preciso di venire proiettate a stretto giro di posta ai soldati impegnati sul fronte libico. L'iniziativa venne realizzata dalla Casa xinematografica Cines e promossa dal Ministero della Guerra (per volere del generale responsabile delle operazioni Carlo Caneva e probabilmente, dello stesso Giovanni Giolitti)
In quel periodo infatti, anche per la coincidenza con le festività natalizie, le caserme italiane vengono letteralmente subissate di lettere di madri e di familiari che chiedono notizie dei loro cari al fronte. Di questi  ragazzi, in patria, a causa del disordine postale dell'Italia del Primo Novecento e nella latitanza della struttura militare ancora impreparata per questo genere di evenienze, non si sa spesso più niente e che si teme siano morti o dispersi.
La notte del 24 dicembre, un telegramma partito dal Ministero della Guerra e della Regia Marina, informa tutte le famiglie  con congiunti militarizzati in Libia che, entro breve, inzierà una vasta campagna per la raccolta capillare di cinematografie di familiari da inviare al fronte.
Due giorni più tardi, sempre a mezzo stampa, le famiglie di Roma e Torino, le prime a beneficiare dell'iniziativa, vengono informate anche sulle procedure da espletare per parteciparvi. Il 30 dicembre, sempre nelle stesse due città, si realizzano le prime riprese, estese poi nelle settimane successive a varie altre parti del paese (Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Venezia, La Spezia). Durante le riprese i famigliari salutano i figli, i fratelli e i mariti lontani mostrando loro qualche piccolo ricordo della vita in patria o qualche oggetto importante: un fiasco di vino da bere al ritorno, figli nati o cresciuti durante la loro assenza e cartelli con messaggi affettuosi. Tutti gli strati sociali vengono coinvolti con la stessa attenzione. Al fronte, la notizia giunge velocemente, e molte sono le lettere inviate dai soldati ai quotidiani nazionali che testimoniano con quanta ansia queste cinematografie fossero attese. Non mancarono, soprattutto dalla parte dei socialisti, le polemiche: si riteneva infatti che potesse essere doloroso e di nessuna utilità mostrare ai militari impegnati in una guerra tanto dura, la serenità famigliare lontana. Le cine-cartoline ebbero un impatto importantissimo sulla percezione della prima guerra di massa che l'Italia, giovane nazione, affronta in terra straniera.
Immensa cartografia di facce e volti dell'Italia alla fine della Belle époque, le cine-cartoline non ebbero nessun seguito durante le guerre successive. Tutta via possiamo considerarle come le antenate di altre forme di comunicazione tra patria e fronte di guerra, come L'ora del Soldato degli '40 (trasmissione radiofonica che l'Ente Italiano audizioni radiofoniche dedicava alle forze armate ) o i più moderni contatti per mezzo di web cam tra i soldati e le famiglie a casa.
Purtroppo, ad oggi, di questi film, non rimane traccia, tuttavia grazie ad un attento lavoro di ricerca (svolto dall'Università di Tor Vergata) sui quotidiani nazionali, è stato possibile ricostruire con la storia di queste straordinarie lettere animate
Grazie alle notizie ritrovate sulla stampa dell'epoca che riportano traccia dell'intenzione della Cines e dalle altre case cinematografiche di donare tutti i materiali relativi alla guerra di Libia in loro possesso allo Stato maggiore dell'Esercito Italiano, è stato possibile individuare presso il Museo dell'Arma dei bersaglieri di Roma (Porta Pia) una pellicola di 15', colorata (imbibita), relativa alla guerra di Libia, ed in particolare al ruolo dei bersaglieri nell'impresa coloniale. La pellicola fu donato dalla Cines, già in forte rapporto con i militari, al museo nel febbraio/marzo 1912 seguendo l'esempio della Giorgio Films- F.lli Parodi di Genova che aveva donato al Museo, in occasione di una matinée speciale riservata alle reclute dei bersaglieri e tenutasi l'8 gennaio 1912 in occasione del  genetliaco della Regina Elena (presso il cinema Moderno di Roma), una cineattualità dal titolo Sbarco delle salme dei generali A. La Marmora e R. Montevecchio a Genova  (dedicata appunto al rientro in patria della salma del fondatore dell'Arma, il generale Alessandro La Marmora, morto di colera in Crimea e traslato nell'estate del 1911)
Questo piccolo fondo, destinato si disse allora, ad allargarsi con lo scopo di creare un "Museo vivente della storia passata e futura", rimase, pare, fermo a questi due soli titoli. Costituisce, tuttavia, la documentazione di un precocissimo tentativo, pioneristico a livello mondiale di costruzione di una cineteca/museo.
Della necessità di fondare degli "archivi cinematografici della storia", si parlò infatti (non a caso in ambito militare, con discussione che giunse anche in Italia) fino dal 1898, ma nessun azione in tal senso si concretizzò prima della fine della Prima guerra mondiale e le prime cineteche nazionali sorsero solo negli anni Trenta.
Attualmente il film, in ottimo stato di conservazione (fatto rarissimo, perché le copie delle cineattualità del tempo sono quasi tutti distrutti o incompleti), è in restauro grazie ad un'iniziativa promossa dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore (proprietario delle copie), L'Università degli studi di Tor Vergata (autrice del ritrovamento grazie al lavoro del ricercatore Luca Mazzei e alla collaborazione con l'Ufficio storico dello Stato maggiore dell'Esercito) e alla collaborazione fattiva con la Cineteca nazionale (responsabile del restauro).  Il film restaurato sarà pronto già dai giorni immediatamente successivi alla manifestazione.
Nel corso della giornata di studi interverranno: Nicola Labanca (Università degli Studi di Siena), Pierre Sorlin (Université Paris-Sorbonne), Coll. Antonino Zarcone (Capo Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito), Ten. Coll. Filippo Cappellano (Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito), Marina Formica (Università degli Studi di Roma "Tor Vergata"), Giovanni Spagnoletti (Università degli Studi di Roma "Tor Vergata"), Francesco Piva (Università degli Studi di Roma "Tor Vergata"), Enrico Magrelli (CSC-Cineteca Nazionale),  Cristiano Tinazzi (giornalista freelance),  Lucia Ceci (Università degli Studi di Roma "Tor Vergata"), Elena Degrada (Università degli Studi di Milano), Serena Facci (Università degli Studi di Roma "Tor Vergata"), Sarah Presenti (Università degli Studi di Torino), Giovanni Lasi (Cineteca di Bologna), Luca Mazzei e Sila Berruti (Università degli Studi di Roma "Tor Vergata").

La Repubblica